EDIPO RE, LO SHERLOCK HOLMES DEL MONDO ELLENICO

Adattamento e regia di Andrea De Rosa

L’Edipo re sofocleo è come un giallo dove l’investigatore si scopre essere il colpevole.
In una Tebe martoriata da una terribile epidemia l’eroe “investigatore”, Edipo, re della città, ha la missione di porre fine all’endemica pestilenza e risolvere il caso della morte del vecchio re Laio, di cui, inconsapevole, è stato lui stesso il responsabile.

L’opera del ciclo tebano, rivisitata in chiave contemporanea nello spettacolo di Andrea De Rosa con la traduzione di Fabrizio Sinisi, andato in scena a Bari al teatro Piccinni dal 19 al 23 febbraio 2025, è la riproposizione del “giallo” sofocleo in una versione che lascia col fiato sospeso prima ancora di iniziare.
Sipario aperto, gli attori ancora nascosti dietro le quinte.
A vista la scena, curata da Daniele Spanò, composta da par a led mobili e fari teatrali, pannelli opachi di plexiglass montati su cavalletti, una sedia in velluto rosso; un’installazione di arte contemporanea più che l’ambientazione di una città greca.
Il lamento acuto e stridente di una donna rompe il silenzio e ci proietta subito nella morente Tebe.
È la voce di Francesca Della Monica, una delle più importanti pedagoghe della voce nel panorama europeo, che insieme a Francesca Cutolo costituisce il coro degli anziani dell’infetta città.
Nascoste dietro i pannelli opachi, che rendono le figure ancora più deformi e perturbanti, queste invocano l’aiuto di Edipo (Marco Foschi), il viandante che era riuscito a risolvere gli enigmi della Sfinge, liberando la città dalla sua morsa.
Diventa re di Tebe e sposa la regina Giocasta (Frédérique Loliée), rimasta vedova dopo la morte di re Laio, che si vociferava essere stato ucciso da un gruppo di briganti sulla strada verso Delfi.
Come uno Sherlock Holmes del mondo ellenico Edipo è ora chiamato a risolvere il caso della morte del vecchio re per porre fine all’epidemia che sta logorando i cittadini di Cadmo: questo è l’indizio che Creonte (Fabio Pasquini), fratello di Giocasta, porta a Tebe dopo aver consultato l’oracolo di Apollo a Delfi.

Ma la trama è molto più contorta di quanto possa apparire: il mito racconta che re Laio e Giocasta misero al mondo un bambino, che poco dopo la sua nascita viene abbandonato con i piedi legati sul monte Citerone, destinato a una morte atroce per volere dei suoi stessi procreatori.
A motivare il tentato infanticidio una profezia del dio Apollo, l’obliquo, che prevedeva l’uccisione di re Laio per mano del figlio e l’unione incestuosa di questi con la madre.
A insaputa dei genitori naturali su quel monte il bambino viene salvato e portato a Corinto da un servo dei regnanti di quella città, cresciuto da re Pòlibo e dalla regina Pelope, noncurante delle sue origini tebane.
A metterci lo zampino è ancora una volta l’oracolo di Apollo e quella hybris che muove l’eroe sofocleo alla ricerca inesorabile della verità: ormai adulto l’orfano, che era Edipo, lascia la città di Corinto per evitare l’inevitabile sorte profetizzatagli dal dio, uccidere il padre, che credeva essere Pòlibo, e congiungersi alla madre, incurante che in quel viaggio si sarebbe imbattuto nel vero padre Laio, provocandone la morte dopo uno scontro per futili motivi.

Torniamo allo spettacolo: Edipo è pronto a tutto pur di risolvere il caso, inconsapevole della propria “responsabilità”. Una ricerca la sua che va di pari passo con la scoperta del suo passato: è su tale spasmodica ricerca di sé attraverso l’altro da sé che si innesta l’intera trama in un continuo gioco metaforico tra vista e cecità, buio e luce, rimarcato dall’uso simbolico degli elementi scenici (come quella striscia di scotch incollata sul pannello opaco, all’altezza degli occhi del protagonista, che solo una volta vista la sua vera natura viene staccata).
La verità non tarda a emergere: “sei tu”, dichiara a più riprese la voce fuori campo quando Edipo, ancora ignaro, maledice il responsabile della morte di re Laio, quindi se stesso, e gli da la caccia.
L’intricata trama, densa di colpi di scena, raggiunge la sua acme nell’incontro scontro con l’indovino cieco Tiresia (Roberto Latini), dietro cui si nasconde il potere religioso contrapposto a quello politico e laico incarnato dall’eroe: prima l’omissione poi la rivelazione della verità a cui è costretto il chiaroveggente di fronte alle infondate accuse dell’uomo di Stato.

La profezia si è di fatto compiuta, ma come ogni eroe sofocleo, questi non capisce finché non è ormai troppo tardi; destinato a una fine umana e mortale non può che accettare le conseguenze della propria appartenenza a un ghenos maledetto. Non c’è conoscenza attraverso il dolore, nessun pathei mathos o redenzione, solo l’inevitabile tragica fine.

L’interpretazione di Roberto Latini merita un plauso: resta impresso il suo monologo “psichedelico” su tappeto musicale elettronico, quando come un aedo beffardo descrive, enfatizzando la gestualità, i tragici sviluppi della vicenda: la morte di Giocasta e l’accecamento di Edipo con gli spilloni che legavano le vesti della moglie e madre suicida.
Dalla platea scappa l’applauso di uno spettatore poi di nuovo silenzio.

È nelle ultime parole del coro che si esplica il pensiero del rinomato autore greco, che a noi contemporanei ancora risuona come un messaggio pedagogico rispetto al corretto modo di vivere: non dite mai che un uomo è felice finché non sia scoccato il suo ultimo giorno.
Un uomo può aver compiuto in vita gesta eroiche, ma il bilancio di un’esistenza si può fare solo al momento del suo epilogo.
A proposito di epiloghi, quello della messa in scena di De Rosa è senza dubbio carico di simbolismo: Marco Foschi, nello spettacolo Edipo, immerso nel buio della scena, afferra una delle barre luminose che hanno abitato il palcoscenico, radiografandosi dal basso verso l’alto fino all’altezza degli occhi, parte del corpo privilegiata dell’intero spettacolo.
Pronuncia le sue ultime parole, dense di rassegnazione di fronte all’inevitabilità della sofferenza umana, prima del buio pesto in cui questi, privandosi della vista, sarebbe sprofondato.

Elena Capone

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