L’industria tessile produce da sola più CO2 del trasporto ferroviario, marittimo e aereo messi insieme. Dal 2000 ad oggi la produzione di abiti è raddoppiata, anche se i singoli capi vengono indossati meno della metà che in passato; 150 miliardi di vestiti per 7 miliardi di persone. Un’orda tessile che si trasforma in rifiuto, milioni di tonnellate di indumenti che arrivano in discarica generando metropoli di spazzatura tossica. Intanto, dall’altra parte del mondo, terre millenarie sono sfruttate al punto da non generare più nulla: specie animali scompaiono in una nebbia di pesticidi e diserbanti, i fiumi si colorano di giallo, cobalto e ogni altro colore che scegliamo per alimentare le 52 nuove stagioni di moda all’anno che pretendiamo di produrre; i pesci muoiono e qualcuno, che con quell’acqua vive, si ammala mentre lavora al buio dei sottoscala e dei campi di notte, al buio di qualsiasi diritto umano e lavorativo. E spesso sono bambine e bambini. All’estremo opposto di questa catena si trovano una ragazza o un ragazzo, un giovane consumatore educato fin dalla più tenera età a credere di avere intimamente bisogno di un certo marchio, di quel preciso logo sul petto, quel paio di scarpe firmate.
Il mondo della fast fashion è l’esempio eclatante di un sistema al collasso, di un certo modo di produrre attraverso lo sfruttamento di persone e risorse ambientali che sta finalmente mostrando i suoi limiti, ma che ancora perdura.
“Fashion victims” si propone di mostrare, attraverso il racconto di una ragazza e di un ragazzo, due facce della stessa medaglia: da una parte un occidente bulimico e inconsapevole delle proprie azioni, e dall’altra parte un altro mondo, il terzo o il quarto, in cui ogni risorsa, compresa quella umana, viene sfruttata fino a esaurirsi.
L’industria tessile produce da sola più CO2 del trasporto ferroviario, marittimo e aereo messi insieme. Dal 2000 ad oggi la produzione di abiti è raddoppiata, anche se i singoli capi vengono indossati meno della metà che in passato; 150 miliardi di vestiti per 7 miliardi di persone. Un’orda tessile che si trasforma in rifiuto, milioni di tonnellate di indumenti che arrivano in discarica generando metropoli di spazzatura tossica. Intanto, dall’altra parte del mondo, terre millenarie sono sfruttate al punto da non generare più nulla: specie animali scompaiono in una nebbia di pesticidi e diserbanti, i fiumi si colorano di giallo, cobalto e ogni altro colore che scegliamo per alimentare le 52 nuove stagioni di moda all’anno che pretendiamo di produrre; i pesci muoiono e qualcuno, che con quell’acqua vive, si ammala mentre lavora al buio dei sottoscala e dei campi di notte, al buio di qualsiasi diritto umano e lavorativo. E spesso sono bambine e bambini. All’estremo opposto di questa catena si trovano una ragazza o un ragazzo, un giovane consumatore educato fin dalla più tenera età a credere di avere intimamente bisogno di un certo marchio, di quel preciso logo sul petto, quel paio di scarpe firmate.
Il mondo della fast fashion è l’esempio eclatante di un sistema al collasso, di un certo modo di produrre attraverso lo sfruttamento di persone e risorse ambientali che sta finalmente mostrando i suoi limiti, ma che ancora perdura.
“Fashion victims” si propone di mostrare, attraverso il racconto di una ragazza e di un ragazzo, due facce della stessa medaglia: da una parte un occidente bulimico e inconsapevole delle proprie azioni, e dall’altra parte un altro mondo, il terzo o il quarto, in cui ogni risorsa, compresa quella umana, viene sfruttata fino a esaurirsi.
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